Intervista a Matteo Fraschini Koffi

“A LUI LA PAROLA”
incontro con
Domenica 29 novembre 2009 ore 10:00
presso
Auditorium di Migrantes, Padri Scalabriniani
Via Torta n. 14, Piacenza

L’AMORE INTELLIGENTE

Domenica 29 novembre è una giornata piovosa, fredda, una di quelle giornate invernali in cui il mio più grande desiderio sarebbe quello di ficcare la testa sotto le coperte e emergere soltanto a mattino inoltrato, davanti a una tazza di caffè bollente. Il mio programma ideale: rimanere tutto il giorno in pigiama con mio marito e mia figlia e vedere uno di quei film in bianco e nero anni ’50, che ci piacciono tanto.
Proprio questo sarebbe successo se AIPA non avesse organizzato un incontro con Matteo Fraschini Koffi, figlio adottivo, giornalista, autore del libro autobiografico “I 19 giorni di Lomè Confessioni di un viaggio alla ricerca della propria identita’.” Questo libro é allo stesso tempo un’inchiesta giornalistica, un viaggio introspettivo e un romanzo di formazione. Un appassionante diario di bordo di un ragazzo determinato a definire l’essenza della sua identità, ma che dovrà prima scontrarsi con una società in apparenza diversa da lui, con le incomprensioni della famiglia e con le domande che turbano il suo animo.
Quale ragione porta un figlio a rifiutare l’affetto della sua famiglia adottiva, per affrontare da solo le difficoltà dell’adolescenza? Cosa spinge un italiano nero a lasciare la vita di tutti i giorni per tornare in Africa, quando migliaia di africani rischiano la propria per raggiungere l’Italia? In che modo un ragazzo sradicato dalla propria terra potrà rimettervi radici, lì dove ora è giudicato straniero?
Non accade spesso che sia una voce maschile a raccontare la propria esperienza adottiva – siamo più spesso noi donne a ripensare e a narrare il nostro percorso di madri o di figlie adottive – e così l’appuntamento diventa ancora più prezioso e importante. Senza contare che ora Matteo Fraschini Koffi torna in Italia di rado, poiché ha deciso di vivere in Kenia, da dove come giornalista freelance scrive, fotografa e invia servizi radio, collaborando con le testate italiane e occupandosi esclusivamente d’Africa.
Come suggerito dalla Dottoressa Ambrosini, prima di questo incontro molti dei presenti hanno letto il libro e hanno trovato spunto per domande e riflessioni. Anch’io ho divorato il libro in pochissimo tempo e arrivo all’appuntamento con tante impressioni e grande curiosità.

Matteo Fraschini Koffi è una presenza che non passa inosservata: a parte il colore della pelle – che spicca subito in mezzo alle altre relatrici (tutte donne e più pallide) – sembra possedere quella pacata autorevolezza che è raro trovare nei giovani della sua età. Del resto lo diciamo sempre che “i nostri bambini” hanno una marcia in più, che quello zainetto di storia che si portano sulle spalle li rende più sensibili, più fragili e, allo stesso tempo, anche più forti nell’affrontare la vita. I nostri bambini crescono e oggi ne abbiamo davanti uno che è cresciuto, ha preso decisioni importanti e è così disponibile e aperto da volerne parlare con noi.

Matteo si presenta: è nato nel 1981 a Lomé – uno dei più piccoli stati dell’Africa Occidentale – e a dieci mesi é stato adottato da una famiglia italiana che abita a Milano. Il suo più grande sogno é sempre stato quello di diventare un inviato di guerra e così, grazie a una serie di circostanze fortunate, ha cominciato giovanissimo a girare per paesi come Palestina e Israele, Romania, Sudafrica, Kosovo, Iraq, e Tajikistan. A 24 anni é tornato in Togo alla scoperta delle sue origini. Dopo tre mesi di ricerche sul proprio passato, ha decise di trascorrere il resto della sua vita in Africa: una scelta di vita radicale ma ben ponderata.

Una scelta che – volente o nolente – può suscitare in noi genitori adottivi disorientamento e un certo sgomento, anche perché Matteo non nasconde di avere avuto qualche problema di comunicazione con i suoi genitori.

 

La copertina del libro

Non é un caso se la prima domanda che viene spontaneo porre a Matteo è proprio questa:

“Cosa ti ha spinto a voler prendere così tanto le distanze dalla tua famiglia? Cosa avresti voluto che i tuoi genitori facessero di più o di diverso nei tuoi confronti, anche nei difficili momenti dell’adolescenza?”.

Matteo ascolta con attenzione, prende tempo e, una volta accertatosi che non ci sia nessun amico dei suoi genitori in sala, con quei modi composti e sereni che lo contraddistingueranno per tutto il dibattito, risponde così:

“Fino a 12 anni sono stato un figlio modello: studioso, responsabile e attento nei confronti dei miei fratelli (ne ho 3), ubbidiente verso i miei genitori, insomma uno che “riga dritto” e non dà problemi. Crescendo e soprattutto in un periodo della mia adolescenza in cui avevo cominciato a frequentare un giro di amicizie non proprio raccomandabile, ho iniziato a raccontare qualche bugia a miei genitori: ricordo ancora il momento in cui qualcosa si è rotto nel rapporto con loro. È stato quel giorno in cui mia madre ha scoperto che le avevo mentito (avevo detto che sarei andato a studiare da un amico) e lo ha riferito a mio padre: a casa è successo il finimondo. Non potrò mai dimenticare la rabbia di mio padre, le sue lacrime di dispiacere e il fatto che, benché minacciasse di uccidermi, alla fine si sia ritirato nel suo rabbioso silenzio, mi abbia lasciato solo nella mia camera e non mi abbia detto nulla. Ancora oggi penso che se me lo avesse dato davvero quello schiaffo, sarei stato io a piangere e, forse, non avrei pensato: con che diritto mi stanno minacciando così questi, che non sono nemmeno i miei genitori…. Penso che sia stato proprio questo il momento decisivo in cui o ho deciso che in futuro avrei fatto sempre e comunque a modo mio”.

Queste sono le parole che nessun genitore adottivo vorrebbe mai sentirsi ma che tutti i genitori adottivi temono un giorno di dover ascoltare dai  propri figli. Così, mentre la Dottoressa Ambrosini si rivolta sulla sedia al solo pensiero di una qualche violenza fisica perpetrata ai danni di un bimbo/adolescente/giovane adottato, le domande e i dubbi dei presenti in sala diventano sempre più palpabili e una mamma incalza:

Ma allora, cosa possiamo fare noi genitori per i nostri figli, come possiamo educarli e stare loro vicino, cercando di aiutarli a affrontare i piccoli e i grandi conflitti della vita quotidiana? C’è qualche consiglio che potresti darci?

Matteo valuta con attenzione la domanda e dice:

Mi sento di dire che la comunicazione – una buona comunicazione – é alla base di tutto. Non bisogna mai rinunciare alla vicinanza con i figli, bisogna sforzarsi, per quanto possibile, di ascoltarli e di seguirli anche a distanza, senza mai porre muri di silenzio o fiumi di eccessive parole, eh sì, perché anche parlando troppo (e ascoltando poco) si possono fare grandi danni.

L’uditorio sembra rasserenato da questo messaggio – considerato anche il fatto che al giorno d’oggi noi, genitori adottivi e aspiranti tali frequentiamo un sacco di corsi sulla comunicazione e quindi ci sentiamo un passo avanti rispetto alle generazioni precedenti o almeno così ci piace pensare – e la discussione si sposta sul tema dell’ integrazione e sulle difficoltà per una persona di pelle nera di vivere in modo perfettamente integrato nell’Italia di oggi. Un padre domanda:

Sei stato mai vittima di discriminazione razziale in Italia? Dal tuo punto di vista siamo un paese razzista?

Matteo sembra rivolgere ai presenti un sorriso amaro e prende la parola:

Vi è mai capitato di trovarvi all’uscita di una chiesa e mentre state tranquillamente parlando con un gruppetto di vostri amici una signora vi mette in mano una monetina? Così, senza nemmeno chiedere se quella monetina la stavate davvero cercando? Quante volte vi è capitato di essere alla guida della vostra macchina e di essere fermato per un controllo dalla polizia stradale? Quante volte vi hanno fermato per strada, così, mentre andavate per i fatti vostri, perché siete stato scelto tra tanti per un controllo dei documenti? Bé, a me capita di continuo. È normale? Ditemelo voi.

A questo punto prende la parola un padre, straniero di nascita ma residente in Italia da 15 anni e commenta così l’intervento di Matteo:

Capisco molto bene quello che intendi: io sono tedesco e vivo in Italia da 15 anni e ho sperimentato sulla mia pelle cosa voglia dire essere “etichettato” come straniero. I primi tempi in cui vivevo qui e non parlavo ancora bene italiano, cercavo casa e mi capitava di fare delle telefonate che si concludevano sempre in maniera perentoria con la frase: mi dispiace ma noi i negri non li vogliamo. Non mi stavano nemmeno a sentire; dall’altro capo del telefono sentivano una persona che non parlava bene la lingua e subito scattava il pregiudizio: straniero – persona poco raccomandabile. Il problema penso che risieda nella mancanza di attenzione verso l’altro; se sei diverso, e per di più con la pelle nera, sei subito marcato come extracomunitario (parola che spesso in Italia è diventata sinonimo di malfattore). C’è poca attenzione e poco rispetto per l’altro, che è ridotto a mero schema mentale e di cui si calpesta la personalità.

Interviene Matteo:

Sì, è vero. Penso che il concetto di personalità dovrebbe ritornare al centro della nostra attenzione. Se guardassimo e ascoltassimo davvero le persone che abbiamo davanti senza cadere nella facile e comoda trappola della generalizzazione, faremmo un grande passo avanti nel rispetto e nella accoglienza del diverso. Anche nell’adozione è necessario saper vedere e saper ascoltare l’altro per quello che è e non per quello che si pensa (o che si vorrebbe) che fosse. Nell’adozione il discorso si fa anche più complesso: i bambini che arrivano in adozione internazionale (come è stato per me) e che sono nati e vissuti in paesi molto diversi dall’Italia affrontano uno shock culturale notevole. Anch’io, pur essendo italiano in tutti i sensi, a un certo punto della mia vita ho sentito l’esigenza di tornare in Africa, con lo strano risultato che mi sento straniero in Italia ma non mi sento del tutto a casa nemmeno in Africa.

A questo punto la domanda è d’obbligo:

–        Cosa pensi dell’adozione internazionale?

Matteo così risponde:

Da quello che scrivo nel libro si può già capire il mio pensiero: secondo me i bambini in difficoltà devono poter essere aiutati nel paese dove sono nati, circondati da persone a loro simili, evitando loro uno shock culturale che comunque renderà loro la vita più complicata di quello che già non sia. Questa cosa potrà suonare strana detta da me che sono stato adottato e che ora ho la possibilità – grazie anche alla mia famiglia, a cui ho dedicato anche il mio libro – di andare in giro per il mondo a fare quello che ho sempre sognato di fare…  Bisogna anche dire che ci sono situazioni in cui l’unica soluzione per dare una possibilità di una vita degna a un bambino è l’adozione…

A questo punto intervengono la Dottoressa Ambrosini e Gabriella:

Siamo consapevoli che i “nostri” bambini già devono affrontare il trauma dell’abbandono, di punto in bianco sono separati dalla loro madre terra ed inseriti in un nuovo Paese, ci rendiamo conto che dalla “protezione” dell’Istituto sono indirizzati in un contesto di famiglia, di persone sconosciute che si offrono come suoi nuovi protettori. Sappiamo che è per loro un cambiamento radicale e a volte traumatico, ma se non fossimo convinte che l’adozione internazionale è per loro l’estrema e unica soluzione non ci daremmo così tanto da fare. Noi crediamo nell’adozione internazionale e ci piacerebbe molto, anzi ti preghiamo, di darci un segno di speranza.

Interviene anche una madre adottiva, che presa dall’impeto della discussione e dall’emozione che tali argomenti suscitano nel pubblico, dice:

–        … E poi l’amore vince tutto. La soluzione è l’amore! Non credi anche tu, Matteo?

Pausa riflessiva. Poi Matteo sembra d’accordo:

–        Sì, è vero, l’amore vince tutto, o meglio, può vincere tutto se è un amore “intelligente”. Sono convinto che non basti dire a un figlio: “Ti voglio bene” se poi non nutri ogni giorno questo amore con l’ascolto attento e con un costante dialogo. La comunicazione gioca un ruolo decisivo in ogni rapporto, in più nell’adozione a complicare le cose  – oltre alla storia dei figli – c’è anche quella dei genitori. Quali sono i motivi che spingono una coppia a adottare? Quali sentimenti e quali pensieri stanno dietro a una scelta di questo tipo? Adozione come ultima spiaggia dopo anni e anni di falliti tentativi di procreazione medicalmente assistita? Adozione come ripiego perché i figli non arrivano e ormai si ha una certa età e la pressione sociale vuole che si abbia almeno un figlio? Adozione come opera caritatevole, perché, insomma, si sa che questi bambini staranno meglio da noi in Italia che in un istituto di un paese in via di sviluppo? Ecco, per amore intelligente, intendo anche un amore consapevole, che sa riconoscere le vere molle che stanno dietro alle nostre scelte di vita, soprattutto quando queste scelte coinvolgono altre persone, soprattutto quando queste scelte saranno decisive per il futuro di bambini.

Dopo queste parole di Matteo in sala cala il silenzio.

A un certo punto, si sente una voce emergere dal pubblico:

–        Bè, non so voi, ma io sarei davvero felicissimo di avere un figlio come lei!

E come non essere d’accordo?

Lo scroscio degli applausi ci riporta alla vita reale e, dopo avere viaggiato insieme a Matteo nello spazio dei suoi viaggi e nel tempo della sua vita, ci ritroviamo tutti fuori dalla sala, avvolti ancora nell’umido della pioggia che non accenna a smettere. Ripenso alla levataccia di stamattina come a un lontanissimo ricordo e alla stanchezza di una settimana impegnativa, si sostituisce l’entusiasmo per l’incontro di oggi e la speranza – o meglio la certezza – che l’adozione sia un modo davvero bellissimo per diventare famiglia.

Paola Minussi

N.B. PRESSO LA SEDE DI AIPA NORD SONO A DISPOSIZIONE ALCUNE COPIE DEL LIBRO DELL’AUTORE.

POTETE RICHIEDERNE UNA COPIA PRESSO LA NOSTRA SEGRETERIA.

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Matteo Fraschini Koffi nasce il 10 luglio 1981 a Lomé (Togo), Africa Occidentale.

A dieci mesi viene adottato da genitori italiani.

Dopo un articolo scritto sul Corriere della Sera in cui descrive le sue esperienze di ragazzo nero milanese, partecipa a varie trasmissioni televisive tra cui: A sua immagine, Italia sul 2, Verissimo, e Le Storie di Corrado Augias. Lavora nel mondo della moda e dello spettacolo, e nel 2003 inizia a viaggiare: Palestina e Israele, Sudafrica, Romania, Iraq, Kosovo e Tajikistan. Nel 2005 recita il ruolo del clandestino Rasmussen in una fiction della Rai, Suor Jo, per la regia di Gilberto Squizzato.

Dopo aver vissuto a Berlino e Parigi per preparare il suo viaggio di ritorno nella sua terra madre, approda in Togo alla ricerca delle sue origini. Decide quindi di stabilirsi definitivamente in Africa da dove scrive, fotografa ed invia servizi come giornalista freelance. Attualmente vive in Kenya.

Gabriella e Simona