L’India – Profilo storico

La storia dell’India – o più precisamente del subcontinente indiano, realtà geologica e geografica distinta dall’insieme del continente asiatico – inizia intorno al 3000 a.C. Le testimonianze più antiche si riferiscono all’area nord-occidentale : tra le varie culture locali spicca quella della valle dell’Indo, o di Harappa, fondata su un fiorente commercio con la Mesopotamia e alla quale si devono insediamenti urbani con case in mattoni, una primitiva forma di unità politica e l’introduzione della scrittura. Questa civiltà scomparve intorno al 1500 a.C., probabilmente per le invasioni di popolazioni seminomadi indoeuropee provenienti dall’Asia centrale, gli Arii, cui si deve il più antico documento letterario sacro indiano – scritto in sanscrito – il “Regveda”; gli Arii, la cui economia era pastorale, si stanziarono inizialmente nel Punjab e nella parte occidentale della pianura del Gange, integrandosi rapidamente con le popolazioni locali (i Dravida, di pelle scura) ma sovrapponendosi ad esse per le loro maggiori conoscenze tecniche, in particolare per l’uso del carro a cavalli. Nel secolo VI a.C. la diffusione degli Arii, che si erano trasformati in sedentari e avevano dato vita a una serie di regni, giunse sino al confine del Bengala.

Fu questo il periodo nel quale si affermò la predicazione del Gautama Buddha (556-486 a.C.) e di Vardhamana (540-468 a.C.), fondatore del Jainismo: ma delle diverse forme della religiosità indiana si parlerà in una nota successiva. Intorno al 550 a.C. si affermò nei bacini dell’Indo e del Gange il regno di Magadha; seguì, tra il 322 e il 185 a.C., l’impero dei Maurya fondato da Oiandragupta: il grande Asoka (273-232 a.C.), che riunì sotto il suo dominio tutta la penisola indiana (escluso l’estremo sud) fissando la capitale a Pataliputra, fece del buddismo la religione ufficiale dell’impero.
Frattanto, fin dalla metà del IV secolo a.C. era divenuta consistente la pressione greca sui confini occidentali dell’India; l’episodio più noto fu la spedizione del re macedone Alessandro Magno (327-326 a.C.), che fu accolto favorevolmente da alcuni re locali ma trovò anche grande resistenza e non riuscì a penetrare nei territori del regno di Magadha. Nel secolo II a.C. si costituirono nelle regioni del nord vari regni retti dai Greci provenienti dalla Battriana. Seguì un periodo confuso finché all’inizio del I secolo d.C. penetrò nell’India occidentale, conquistandola, una popolazione centroasiatica, i Kushana; il loro regno sotto Kanishka si estese sino a Benares. Nella prima metà del secolo IV d.C. si affermò l’impero dei Gupta che fiorì per circa un secolo – con capitale a Pataliputra – segnando il momento più alto della civiltà indù (“hindu”), una popolazione di pelle scura, derivante dall’incrocio degli Ari con i Dravidi. Grande sviluppo ebbero in questo periodo le lettere e le arti; fu allora che scrisse i suoi componimenti Kalidasa, considerato il più grande poeta dell’India classica. Fondatore della dinastia fu Chandragupta I (ca. 320-335); il figlio Samudragupta (335-ca.376) estese il dominio dell’impero, opera che fu completata da Chandragupta II (ca. 376 – ca. 414).

Nella seconda metà del secolo V l’impero dei Gupta cominciò a indebolirsi per la pressione ai suoi confini nordoccidentali di popolazioni centroasiatiche, gli Efialiti o Unni bianchi; alla fine del secolo V quasi tutta l’India occidentale era caduta sotto il dominio di queste popolazioni. Alla metà del secolo successivo il paese si divise in molteplici regni indipendenti, in lotta tra di loro, divisione che è perdurata sino alla metà del XX secolo. In questo periodo il buddismo fu progressivamente soppiantato dall’induismo, una religione derivata dal più antico brahmanesimo.
Nella prima metà del secolo VIII iniziarono le invasioni islamiche che portarono inizialmente alla conquista della regione del Sindh; più tardi una più consistente minaccia fu portata dal sultano turco Mahmud (971-1030) che conquistò i regni indù di Kabul e del Punjab ed effettuò numerose incursioni nel territorio indiano. Per circa due secoli i musulmani non tentarono ulteriori penetrazioni in India ma la situazione cambiò quando nel 1192 il condottiero turco Muhammad Ghori sconfisse l’esercito indiano a Tarain e conquistò la vallata del Gange. Da questo momento inizia il predominio musulmano sull’India. Nel 1206 – assassinato Muhammad – prese il potere il mamelucco Aibek che si proclamò sultano di Delhi; nei decenni successivi il dominio musulmano si consolidò e raggiunse la massima espansione intorno al 1330 con Muhammad ibn Tughluq (1325-1351); tuttavia alcuni sovrani indù riuscirono a conservare la loro autonomia pagando tributi ai sultani musulmani. Il potere di questi ultimi era basato su un rigido ordinamento teocratico-militare e su una gravosa imposizione tributaria; ne derivarono gravi tensioni sociali anche per la persecuzione del buddismo: la resistenza all’Islam -che condusse a vere e proprie guerre- si accentrò nel regno indù di Yijanagar. Alla fine del Trecento il potere del sultanato di Delhi e di altri sultanati indipendenti iniziò a declinare, specie per le incursioni e i saccheggi portati tra il il 1398 e il 1399, dall’imperatore mongolo Tamerlano. Al dominio turco si sostituì nel 1451 quello della dinastia afghana dei Lodi, sconfitti nel 1527 a Panipat: Delhi cadde sotto Babur, condottiero turco-mongolo, primo sovrano della dinastia Moghul, che fissò la capitale ad Agra. Sotto Akbar (1556-1605) il dominio Moghul si estese a quasi tutta l’India settentrionale, al Deccan, al Kashmir e al Singh. La sua politica fu ispirata a princìpi di tolleranza con il riconoscimento di uguali diritti alle diverse religioni, in particolare agli Indù che furono ammessi all’amministrazione statale. L’ultimo dei Moghul fu Aurangzeb (1658-1707), fanatico sostenitore dell’islamismo e perciò persecutore degli Indù, con la distruzione dei loro templi; ne derivarono rivolte in specie dei Gathi e delle popolazioni del Punjab, con il trasformarsi del movimento dei Sikh da religioso a politico. Alla morte di Aurangzeb l’impero dei Moghul si disgregò rapidamente.

Il crollo dell’impero Moghul accelerò il processo di penetrazione in India delle Compagnie commerciali europee avviato agli inizi del secolo XVII: nel 1600 era nata la Compagnia inglese delle Indie Orientali con stazioni a Bombay, Calcutta e Madras; nel 1602 fu istituita la Compagnia Unita dei Paesi Bassi per le Indie Orientali e nel 1609, gli Olandesi stabilirono insediamenti nell’isola di Ceylon; nel 1664 lo statista J.B. Colbert fondò la Compagnia francese delle Indie Orientali, che aprì basi commerciali a Pondicherry e a Chandernagore. Nella prima metà del Settecento si sviluppò nell’area indiana la rivalità tra Francia e Inghilterra; i contendenti cercarono l’appoggio dei sovrani locali e nel lungo contrasto, dopo successi iniziali francesi, finirono per prevalere gli Inglesi; questi ultimi nel 1757, comandanti da R. Clive, sconfissero a Palasi l’esercito francese sostenuto da Siraj al-Daulad, nababbo del Bengala, determinando, di fatto, la sovranità inglese su quella regione. I governatori inglesi instaurarono inizialmente una politica oppressiva e vessatoria, cui si oppose con rigidi provvedimenti amministrativi W. Hastings, nominato nel 1773, dal parlamento britannico Governatore Generale dei possedimenti indiani della Compagnia. Hastings riuscì a debellare, facendo varie concessioni, la feroce opposizione delle popolazioni Maratha (Maratti) stanziate nell’India centrale. Nei decenni successivi l’egemonia inglese, che si manifestò anche con l’introduzione della cultura e dei sistemi amministrativi europei, si estese praticamente a tutti i territori indiani. Accanto agli aspetti positivi di questa rivoluzione, che portò ad una modernizzazione del paese, sono da rilevarne le conseguenze negative sotto il profilo economico e sociale: l’importazione dall’Inghilterra di merci prodotte industrialmente provocò una brusca caduta dei prezzi che portò alla miseria le classi contadine e gli artigiani; parallelamente si arricchirono i mercanti dediti ai traffici con l’Inghilterra.

Il diffuso malcontento popolare ma in particolare l’estremo tentativo di resistenza delle classi feudali timorose di perdere gli antichi privilegi per le riforme inglesi causò la “grande rivolta” del 1857: i “sepoy” che costituivano una parte dell’esercito della Compagnia si ribellarono impadronendosi di Delhi e restaurarono la monarchia Moghul con Bahadur Shah II. La “rivolta ” fui presto domata in un bagno di sangue -con la partecipazione a fianco degli Inglesi dei Sikh del Punjab e dei Gurkha del Nepal- ma crudeltà ed eccessi furono compiuti dalle due parti, con la conseguente scia di odi e risentimenti. Nel 1858 la Compagnia inglese delle Indie Orientali fu sciolta e l’India divenne diretto dominio della Corona britannica sotto il governo di un viceré, situazione che perdurò sino al 1947. Emersero ben presto le aspirazioni delle più attive componenti della società indiana ad ottenere un reale potere politico; di esse si fece inizialmente portavoce il Partito del Congresso nazionale indiano fondato nel 1885. La politica inglese tendente a dividere le comunità indù e musulmana, con provvedimenti contraddittori, portò a gravi tensioni; nel 1906 con l’intendimento di proteggere gli interessi delle comunità islamiche fu fondata la Lega musulmana. Nel Partito del Congresso, nato come movimento moderato, prese il sopravvento nel 1907 la fazione estremista, sull’onda del malcontento per la politica autoritaria inglese guidata tra il 1898 e il 1905 dal viceré G.N. Curzon. Grande risentimento causò la divisione del Bengala in due province, una orientale a prevalenza musulmana ed una occidentale a prevalenza indù. Nacque in questo periodo un movimento clandestino terrorista responsabile di attentati ed assassini. L’Inghilterra tentò di risolvere la difficile situazione con la promulgazione nel 1909 dell’”Indian Council Act”, che attribuiva poteri ad una rappresentanza elettiva indiana nel Consiglio legislativo centrale e nei Consigli provinciali; ma la netta distinzione tra rappresentanti indù e musulmani approfondì il solco tra le due comunità, con gravissime conseguenze che sono perdurate sino ai nostri giorni.

Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) l’India appoggiò lealmente l’impegno bellico inglese nella speranza che le richieste di autogoverno fossero in qualche modo esaudite; queste ebbero una limitata risposta con un “Act” del 1919, ma non furono sufficienti a sedare la crescente opposizione antinglese, particolarmente attiva nel Punjab; un episodio gravissimo si verificò il 13 aprile 1919 quando una pacifica dimostrazione ad Amritsar -città sacra dei Sikh- fu duramente repressa dalle truppe inglesi, con circa 400 morti tra i manifestanti. Si affermò in questa difficile situazione la figura di M.K. Gandhi (1869-1949) -il Mahathma, ossia “grande anima”- che basò la lotta su metodi non violenti, in particolare sul boicottaggio delle merci inglesi, la non collaborazione, la resistenza passiva, La sua figura ascetica, il convincimento che la purificazione possa raggiungersi solo attraverso l’amore per il prossimo, unitamente al suo esemplare stile di vita, determinarono una grande suggestione nella società indiana; in particolare egli ebbe l’appoggio del ceto medio e delle classi inferiori, dei “paria” per lo più analfabeti, esclusi dalle quattro caste nelle quali era strutturata da secoli la società indiana. L’azione di Gandhi -ripetutamente arrestato- e dei suoi seguaci si sviluppò tra il 1920 e il gennaio del 1948, quando fu assassinato da un estremista indù. Attraverso concessioni e repressioni, un riacutizzarsi del conflitto tra indù e musulmani, che si battevano per la costituzione di uno stato islamico indipendente, si giunse al 15 agosto 1947, quando con l’”Indian Independence Act” venne proclamata l’indipendenza dell’India, associata da allora al Commonwealth britannico. Il piano elaborato dal viceré lord L. Mountbatten prevedeva la divisione del paese in due stati: l’Unione Indiana (Bharat Juktarashtra) -repubblica federale presidenziale con capitale a Nuova Delhi- a prevalenza indù e il Pakistan -repubblica islamica con capitale a Islamabad- a prevalenza musulmana. Ciò determinò il riacutizzarsi delle tensioni tra le due comunità; il contrasto non era solo religioso ma coinvolgeva secolari problemi: etnici, sociali, politici. Intere popolazioni trasmigrarono: circa sette milioni di musulmani dall’Unione Indiana si rifugiarono nel Pakistan, da dove partirono in senso inverso circa dieci milioni di indù. Tra il 1947 e il 1950 si verificarono gravissimi scontri tra le due etnie, con circa 500.000 morti.

Il conseguimento dell’indipendenza riacutizzò i secolari conflitti interni e pose il problema, nuovo, della posizione dell’India nel contesto internazionale. Instabilità e debolezza dell’Unione Indiana furono causate innanzi tutto dalla incertezza dei confini: ne derivarono ricorrenti crisi -dal 1947 ai nostri giorni- con il Pakistan per il Kashmir e per la regione di Hyderabad annessi rispettivamente nel 1947 e nel 1948 e con la Cina per la questione del Tibet, annesso nel 1962 dalla grande potenza asiatica. I governanti che dalla morte di Gandhi sino alla metà degli anni Novanta guidarono l’Unione Indiana (si ricordano tra gli altri: J.Pandit Nehru; L. Badahur Shastri; Indira Gandhi, figlia di Nehru; M. Desai; Raijv Gandhi, figlio di Indira; N. Rao) tentarono ora avvicinandosi all’URSS e ai paesi comunisti, ora attuando una politica filo-occidentale o mantenendo il paese in una difficile condizione di neutralità, di inserire l’Unione Indiana nella politica internazionale, anche da posizioni di forza; come quando, nel 1947, l’Unione Indiana divenne potenza nucleare con la costruzione della bomba atomica.

Nell’impossibilità di dar conto in questa sede dei complessi, e talvolta confusi, svolgimenti della politica estera ed interna indiana -il cosiddetto “mosaico indiano”- per la presenza di etnie, religioni, lingue, culture diverse, si segnaleranno alcuni dei più importanti avvenimenti verificatisi dalla metà del Novecento ai nostri giorni. Delle crisi con il Pakistan e la Cina si è detto; occorrerà aggiungere che nel 1971 una parte orientale del Pakistan a prevalenza indù -con l’appoggio dell’Unione Indiana- si costituì come Bangladesh in stato indipendente. Tendenze separatiste sono tuttora presenti negli stati del Punjab e dell’Assam. Nel tentativo di unificare il paese nel 1950 furono soppressi circa 550 tra regni e principati costituitisi nel corso dei secoli; in quest’ottica si giunse nel 1956 all’imposizione dell’”hindi”, parlato dalle popolazioni del nord, quale lingua nazionale, con resistenze e malumori delle genti del sud di lingua “tamil”. Nel 1955 furono abolite le caste, ma profonde divisioni sono continuate a persistere nella società indiana per le disparità economiche: i processi di industrializzazione avviati fin dalla metà degli anni Cinquanta hanno condotto a risultati modesti senza determinare un reale e diffuso miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza dei cittadini. I correttivi tentati dai diversi governi per superare tale condizione -aggravata da una inarrestabile crescita demografica- hanno oscillato tra politiche economiche di tipo socialista (in particolare con Indira Gandhi) e orientamenti liberisti (promossi da M. Desai e N. Rao); sul piano politico si ebbe nel 1967 la crisi del Partito del Congresso che si scisse in due tronconi -Vecchio e Nuovo Congresso- e l’affermarsi nel 1977 della destra estrema, che dal 1991 si è riconosciuta nel “Bharatiya Janata Party” (BJP, Partito Polare del Barath), rigidamente induista, xenofobo, fomentatore di persecuzioni nei riguardi dei musulmani. Le tensioni sociali, le contese tra etnie e confessioni religiose diverse, le spinte secessioniste presenti in vari stati determinarono crisi ricorrenti e il tentativo di risolvere le controversie mediante l’eliminazione fisica dei governanti; così il 31 ottobre 1984 estremisti sikh assassinarono Indira Gandhi; stessa sorte toccò, per mano tamil, nel maggio del 1991, al figlio Raijv che le era succeduto al governo del paese avviando una politica di pacificazione nazionale.

La soluzione del problema indiano tuttavia era -e lo è tuttora- lungi dall’essere risolta. Qualche risultato è stato ottenuto con una serie di riforme economiche di tipo liberista avviate nel 1991 da N.Rao, che riuscirono ad attrarre nel paese capitali stranieri; si avviarono consistenti privatizzazioni dell’immenso e improduttivo patrimonio pubblico e si intraprese una decisa lotta contro la corruzione politico-amministrativa.

Alla metà degli anni Novanta il tasso di crescita dell’economia indiana aveva raggiunto la media annua del 5,50%, si avevano consistenti riserve in valuta (circa 20 miliardi di dollari), la produzione industriale aumentava intorno all’8% annuo. Si era formata una classe media di circa 150 milioni di consumatori ma permanevano profonde divisioni tra ricchi o benestanti e poveri -circa 300 milioni sul miliardo di abitanti- che vivevano al di sotto della soglia di sopravvivenza, in remoti villaggi agricoli o nelle degradate periferie delle città. Tra il 1996 e il 2001 si è affermata la destra induista con il BJP a danno dello storico Partito del Congresso; la difficile situazione interna ha portato però alla costituzione di governi di coalizione guidati da D. Gowda, I.K. Gujral, A.B. Vajpayee -dal luglio 1997 sotto la presidenza di K.O. Narajanan- nel tentativo di risolvere le controversie con i paesi confinanti, le tensioni sociali, interetniche e religiose, di dare una risposta alla necessità di alleviare le drammatiche condizioni di vita di gran parte della popolazione, I risultati non sono mancati ma sono risultati inferiori alle attese: ancora tra il 2001 e il 2002 si sono avuti, infatti, scontri con il Pakistan per la questione del Kashmir; sul piano interno non è stata di certo eliminata la diffusa povertà e nel febbraio 2002 gravi scontri, con centinaia di vittime, si sono avuti tra integralisti indù e musulmani nello stato del Gujarat. Fatto che tuttavia lascia bene sperare -nonostante tutto- è il consolidarsi di una democrazia laica, la sola istituzione che possa assicurare, sia pure in una prospettiva temporale certamente non breve, la soluzione dei secolari problemi del paese.

Mario Pepe