Viaggio nelle terre dell’Est

“Il comandante è lieto di annunciare ai signori passeggeri che stanno per atterrare a Mosca, e li prega di mettere indietro gli orologi di trent’anni”.
Non più di un decennio fa, questa vecchia battuta riassumeva con grande effetto l’Unione Sovietica agli occhi di un occidentale.
Oggi invece c’è la libertà, ma purtroppo questa non si mangia dice la voce ricorrente dei “nuovi poveri” che in pochi anni di postcomunismo hanno perso tutto.
La vita di queste persone è totalmente cambiata, prima si nasceva, si studiava, ci si sposava, si lavorava e si andava in vacanza nei sanatori di Stato.
Era proprio lo Stato, infatti, che provvedeva a tutto, miseramente ma puntualmente ogni mese: una casa modesta, il salario per sfamare la famiglia, la scuola, gli ospedali e altri servizi che lasciavano molto a desiderare ma che comunque costituivano una certezza.
La mia prima reazione, arrivata finalmente a destinazione in una qualsiasi città dell’Est, è stata quasi sempre di delusione e di incomprensione nel vedere e respirare un immobilismo di altri tempi completamente incompatibile con i nostri ritmi frenetici e spesso deliranti.
In era sovietica le città sono cresciute di numero e popolazione, ma sono anche diventate molto più brutte e troppo simili: stesso disegno topografico, i medesimi palazzoni popolari, spesso anche gli stessi nomi per strade e piazze.
Per farsi un’idea dell’Est europeo, bisogna immaginare anche grandi e interminabili distese in cui è possibile viaggiare per ore incrociando raramente qualche vecchia macchina e villaggi tutti uguali tra loro con piccole casette dai tetti di eternit, da noi dichiarato fuorilegge perché altamente cancerogeno ma ugualmente ricomprato da loro per il basso costo.
Si attraversano chilometri di boschi di betulle su strade asfaltate come si può, incontrando donne con i loro inconfondibili fazzoletti in testa, unica vera forza su cui si poggia la poverissima economia rurale dei kolkhoz.
In queste aziende agricole collettive di stato che, sebbene oggi privatizzate sono ancora di stampo sovietico, ho cominciato a rendermi conto come la vita di queste persone non sia poi cambiata così tanto: ogni giorno è uguale all’altro, tutto scorre lentamente, ognuno occupa quel posto assegnato che non permette iniziativa individuale.
Il divario tra la campagna e le città è forse oggi ancora più sentito rispetto al passato. A distanza di qualche anno ho visto la trasformazione soprattutto delle capitali: di notte il centro si illumina di pubblicità con insegne di ogni genere, prime fra tutte quelle della coca cola, si vedono i ragazzi in coda per un hamburger, locali e ristoranti che fino a pochi anni fa sarebbero stati inconcepibili ma che oggi fanno pensare a quel benessere tanto sognato.
Ma mi è bastato girare l’angolo per accorgermi che molto ancora si dovrà fare per cambiare una storia troppo lunga e tormentata: tutto continua ad essere grigio, le case, l’abbigliamento della gente, le automobili, il cielo.
A Minsk, Bucarest, Kishinev, San Pietroburgo non è difficile incontrare i risultati di un passato ancora troppo recente e devastante che per molti che non lo hanno vissuto neppure per un giorno significa già purtroppo una condanna.
Abitazioni troppo piccole, esistenze troppo dure, l’alcool, mandano rapidamente in frantumi anche le coppie.
Tantissimi quindi sono i divorzi, le donne spesso giovanissime cercano di tirare avanti la famiglia come possono e tengono duro, da sole. Chi soffre per le miserie del postcomunismo sono anche i bambini, alcuni di loro, i cosiddetti “orfani sociali”, abbandonati in strada da genitori alcolizzati, in carcere o alla continua ricerca di un lavoro che forse non arriverà mai.
I più “fortunati” vivono negli internati, i nostri orfanotrofi, almeno al riparo dal lunghissimo e rigido inverno purtroppo alcune volte fatale per gli altri che possono trovare rifugio e calore solo nelle fogne e nei sotterranei delle città con il loro inseparabile sacchetto di colla che “aiuta” a sconfiggere la fame e la disperazione.
Ma durante i miei numerosi viaggi in queste terre così vicine a noi ma così diverse per cultura e tradizione, ho conosciuto tante persone e storie che mi hanno insegnato a non fermarmi alle apparenze e ai luoghi comuni.
Sono popoli che nonostante tutto amano profondamente la loro patria e con orgoglio ne cercano il riscatto. Ho scoperto la gentilezza e l’accoglienza di persone che sebbene modeste, con il cuore ti offrono la loro casa, dove ti devi togliere rigorosamente le scarpe e indossare le ciabatte (tufli) che trovi accanto alla porta d’ingresso, dove nell’angolo ci sono quelle dei familiari e un certo numero per amici e parenti.
Sono entrata in confidenza con loro e mi hanno trasmesso il grande desiderio di conoscere un mondo nuovo attraverso racconti di vita vissuta.
Questa loro disponibilità totale e incondizionata è disarmante, mi disorienta e ogni volta mi contagia. Entrare in una casa rumena, bielorussa o moldava, significa entrare nella loro cultura, vivere per un momento la loro vita così difficile ma ancora sana e genuina.
Ho brindato con loro per la gioia di averti ospite almeno per un giorno, ho mangiato con loro intorno ad una tavola imbandita di blinciki (frittelle simile alle crepes suzettes servite con marmellata e panna acida) di pirozkhi (involtini farciti di carne e verdure) di sazuski (antipasti caldi e freddi con i quali si comincia ogni pranzo che si rispetti), tutte specialità rigorosamente preparate per l’occasione e da tutta la famiglia.
Insieme a loro ho provato emozioni che rimarranno incancellabili nella mia memoria.